Medicina e pari opportunità, un binomio sempre più attuale

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Servizio comunicazione istituzionale

24 Settembre 2024

Antonio Landi, assistente dottorando presso la Facoltà di scienze biomediche e vincitore del Premio pari opportunità 2024 dell’USI per contributi scientifici su tematiche di parità e diversità, ci ha presentato la sua ricerca lanciando, nel contempo, uno sguardo ad ampio raggio alla medicina di genere.

Antonio Landi, può spiegarci in cosa consiste la ricerca da lei condotta e a che risultati ha condotto?

"L’obiettivo dello studio pubblicato sulla rivista JAMA Cardiology era analizzare l’impatto del genere maschile o femminile sulla terapia farmacologica ottimale nei pazienti con malattia aterosclerotica coronarica sottoposti ad angioplastica con impianto di stent coronarico. In questi pazienti, le attuali linee guida raccomandano una duplice terapia antiaggregante (DAPT) per una durata complessiva di 6 o 12 mesi nei pazienti con sindrome coronarica cronica e acuta, rispettivamente, per ridurre il rischio di complicanze ischemiche durante il follow-up. Prolungare la durata della DAPT oltre i 6-12 mesi assicura, da un lato, una protezione maggiore da potenziali eventi avversi ischemici (ad esempio, infarto del miocardio) ma si associa, dall’altro lato, ad un rischio maggiore di sanguinamento. In particolare, l'impatto del genere sul rischio di sanguinamento rimane controverso in quanto alcuni studi hanno dimostrato che il sesso femminile conferisce un rischio di sanguinamento maggiore, mentre altri non hanno dimostrato differenze significative. Per rispondere a questi quesiti, abbiamo effettuato il nostro studio nell’ambito del trial clinico MASTER DAPT ponendoci due obiettivi principali: analizzare gli eventi clinici dopo angioplastica coronarica nei pazienti maschi e femmine ad alto rischio di sanguinamento e valutare gli effetti di una durata ridotta della DAPT rispetto alla terapia standard nei due sessi. I nostri risultati dimostrano, per la prima volta, che una DAPT abbreviata dovrebbe essere considerata come strategia di scelta nelle donne ad alto rischio di sanguinamento sottoposte ad angioplastica coronarica, in quanto possono trarne un beneficio in termini di sanguinamento (in modo comparabile rispetto agli uomini), ma soprattutto nessun potenziale incremento di eventi ischemici rispetto al trattamento farmacologico convenzionale". 

Di quanta considerazione gode al giorno d'oggi la medicina di genere, concetto introdotto anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), alle nostre latitudini?

"A mio avviso negli ultimi anni il tema della medicina di genere ha acquisito un'importanza crescente. In ambito cardiologico penso che sia particolarmente rilevante, poiché ogni anno vi sono più di sette milioni e mezzo di donne che muoiono per malattie cardiovascolari, e ricerche come quella che abbiamo condotto noi possono essere importanti anche per sensibilizzare in merito al fatto che le terapie possono essere distinte in base al genere, diventando così più mirate. I dati emersi dai nostri studi dimostrano che, in base al genere, sussistono notevoli differenze non solo in termini di meccanismi fisiopatologici delle malattie, ma anche differenti risposte dei pazienti alla terapia farmacologica. Fino a qualche anno fa probabilmente quello della medicina di genere poteva ancora essere considerato un ambito di nicchia, ma al giorno d’oggi sta diventando sempre più rilevante. E si tratta di una tendenza piuttosto omogenea in tutto l'Occidente".

Quali sono i margini di sviluppo del vostro studio?

"Dai risultati del nostro studio abbiamo rilevato che circa il 30% dei pazienti inclusi erano donne. Da questa osservazione, abbiamo analizzato un registro (screening log) del MASTER DAPT in cui sono stati riportati (per 14 giorni consecutivi in un numero selezionato di centri) tutti i pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, per i quali è stata poi stabilita l'eventuale eleggibilità per la partecipazione al trial clinico. L’obiettivo era capire se una quota maggiore di donne fosse stata esclusa dallo studio, a quali donne lo studio non fosse stato proposto e quali erano state le motivazioni riportate dal ricercatore. L'aspetto interessante che abbiamo evidenziato è che a una quota maggiore di donne non è stato proposto di partecipare allo studio oppure ha rifiutato la partecipazione. Tra le motivazioni riportate spiccava la percezione da parte dell'investigatore di un eccessivo rischio di eventi avversi. In altre parole, quello che abbiamo effettivamente osservato è che alle donne viene proposto meno frequentemente di partecipare a un trial clinico, principalmente per una percezione da parte del ricercatore di un elevato rischio di eventi avversi. Si tratta di quello che viene spesso definito come “gender bias”. Questo dimostra che esistono ancora alcune barriere alla partecipazione delle donne negli studi clinici e che sono necessari ulteriori sforzi per consentirne un maggiore coinvolgimento, soprattutto negli studi che riguardano le malattie cardiovascolari".

Se potesse apportare un cambiamento per rendere più paritaria la medicina, quale sarebbe?

"Il primo aspetto che mi viene in mente è sviluppare studi che possano focalizzarsi esclusivamente sulle donne. Continuare a disegnare e condurre trial clinici che non presentano un criterio di inclusione basato sul genere inevitabilmente ha portato ad avere una distribuzione non equa dei partecipanti in base al genere. Il prossimo step può essere quello di sviluppare studi clinici che includano esclusivamente donne. È stato fatto un primo studio nelle pazienti donne con una malattia della valvola aortica che ha fornito risultati interessanti e ha consentito di selezionare una terapia più mirata per le donne. Una strada da intraprendere per il futuro, per superare il “gender bias”, potrebbe essere quella di sviluppare studi clinici distinti. Anche se non si tratta di un progetto immediatamente realizzabile, non è una visione così utopica. Ovviamente la fattibilità di un progetto del genere dipende anche dalla frequenza della patologia di base, ma il nostro insieme ad altri studi clinici sono i primi passi nella giusta direzione".

 

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